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NEL REGNO DEL SILENZIO

SPITI VALLEY, ALLA RICERCA DEL LEOPARDO DELLE NEVI

Foto e Testo di Jonathan Giovannini

Ci sono viaggi che iniziano con un'immagine, non con una meta. Per me era uno sguardo: quello del leopardo delle nevi, Panthera uncia, predatore silenzioso dell’Himalaya, signore invisibile delle vette. Vederlo non era una garanzia, ma una scommessa con la fortuna, con la pazienza, con il gelo. Abbiamo attraversato la Spiti Valley in jeep, per giorni interi, sballottati lungo strade scolpite nella roccia, tra strapiombi che sembrano non finire mai e panorami unici, con montagne solo oltre i 5500 metri. Ogni tornante era una sfida alla gravità, ogni chilometro un lento acclimatamento non solo alla quota, ma a un modo di vivere completamente diverso. Qui il respiro si fa corto, la testa leggera, il pensiero lento, vivere a 4500 metri è una costante sfida.

Lo Spiti non perdona, ma insegna. Si sopravvive in piccoli villaggi tibetani ad oltre 4500 metri, in case costruite sfruttando materiali di fortuna, dove in inverno non esiste acqua corrente, ma solo ghiaccio. Nella notte il freddo entra nelle stanze, dove si può godere del calore del fuoco per sole poche ore al giorno, regalando risvegli con temperature interne inferiori allo zero. La mancanza di ossigeno ti obbliga a rallentare: anche infilare le calze è un atto consapevole, risparmiare energie è fondamentale per riuscire ad essere concentrati e idratarsi in modo più che abbondante è l’unica difesa contro il mal di montagna.

Il primo pomeriggio

Il sole era ancora alto, filtrava tra le creste rocciose e tingeva di rame le pareti della valle. Stavamo osservando il ripido crinale sotto di noi quando la guida ha indicato qualcosa, con quella calma sicura che non lascia spazio a dubbi. Tra le rocce non si vedeva assolutamente nulla, ma il nostro amico indiano era certo: due sagome, immobili, perfettamente fuse con il paesaggio. Due leopardi delle nevi. È difficile spiegare cosa si prova. La bellezza era lì, viva, immersa nel silenzio di quelle montagne fredde e selvagge. Guardarli attraverso la macchina fotografica, con il super tele da oltre 1200 millimetri, rendeva ogni dettaglio più nitido: zampe enormi, sproporzionate, pensate per galleggiare sulla neve, una coda lunga e folta e una pelliccia dalla texture incredibile. Il leopardo delle nevi si muove su precipizi estremi, con la consapevolezza costante del pericolo, ma anche con la padronanza assoluta del suo corpo e di quel sorprendente senso dell’equilibrio che lo rende unico.

Jonathan Giovannini

"Essere un fotografo wild life per me significa entrare in simbiosi con il mondo naturale, rispettarlo e rappresentarlo nel suo stato più puro."

Vivere in armonia con l'altitudine

Il leopardo delle nevi è un maestro dell’adattamento. Vive a quote proibitive, dove l’aria è rarefatta e le temperature scendono fino a -35°C. La sua coda lunga, il mantello folto e l’incredibile capacità di mimetizzarsi lo rendono quasi invisibile. Un’ombra tra le ombre. Preda stambecchi, blue sheep e altri animali perfettamente adattati a questo ambiente estremo. Non spreca nulla: ogni movimento è misurato, ogni scelta è orientata alla sopravvivenza. Come tutti qui. In queste montagne non vivono solo animali, ma anche persone che affrontano condizioni durissime con uno spirito sorprendente. Vivono con poco, adattandosi a tutto, con una forza e una positività autentica.

Piccoli villaggi disseminati tra i versanti, abitati da comunità di pastori e monaci buddisti, resistono al tempo e al clima con una calma che noi, occidentali, fatichiamo a comprendere. Case fredde, cucine fumose e preghiere che scandiscono il tempo. In queste culture, il leopardo delle nevi non è un nemico, ma anzi è parte del sacro equilibrio. Capita che vengano predati gli yak o le capre allevate, ma nessuno cerca vendetta. La perdita è considerata un’offerta, un sacrificio naturale dal carattere religioso. I racconti dei vecchi parlano del leopardo come di un essere spirituale. Presenza sfuggente, protettore delle montagne, simbolo di forza e mistero. Forse è proprio per questo che vederlo, anche solo per un attimo, riempie di emozioni difficili da provare altrove.

Il viaggio che resta

Tornare a valle non è solo un percorso geografico. È una discesa da un altro ritmo, un altro modo di sopravvivere. Lo Spiti Valley ci ha lasciato qualcosa che non si può impacchettare: la consapevolezza che la vera conquista non è l’avvistamento, ma il percorso stesso. Che non sempre si viaggia per vedere, a volte si viaggia per capire e per sfidare le proprie capacità, sacrificando le abitudini e le comodità estreme del XXI secolo. O magari, per imparare a scomparire, proprio come il leopardo tra la neve.